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L'ultima missione

Era una notte buia e tempestosa quella che si abbatteva sulla città e una pioggia acida corrodeva i muri dei vecchi grattacieli.
Ero immerso in tetri pensieri, dopo aver risolto il mio ultimo caso in maniera veramente poco ortodossa.
Il maresciallo Rocket era stato tutt’altro che felice scoprendo che il fidato informatore della polizia Guido Cancelli era precipitato dal centoventisettesimo piano del palazzo della Aluminium Corporation. Mi aveva accusato di non essere stato in grado di proteggerlo e non mi aveva creduto quando gli avevo detto che Cancelli faceva il doppio gioco e che era solo un filo della ragnatela di poliziotti corrotti presenti nella città: non avevo più testimoni. La volta seguente avrei dovuto lasciarne uno vivo.
Il maresciallo mi aveva ritirato il distintivo e la pistola, mi aveva sospeso, ed ora ero Kurt Kallagan, civile. A volte vorrei che la mia mira non fosse così perfetta.
Era mezzanotte quando ero arrivato al mio appartamento per prendere la pistola di riserva e subito mi ero accorto di essere stato prececduto: la serratura elettronica era stata forzata e dal monolocale proveniva un sibilo, come se le finestre fossero state aperte.
La mano era corsa alla fondina. Vuota. Ovviamente.
Mi preparai a combattere a mani nude, sperando di cogliere di sorpresa chiunque fosse all’interno.
Balzai nell’appartamento e…Nessuno, anzi niente, era nella stanza. Tutto il mobilio era sparito, perfino i vetri delle finestre erano scomparsi e per terra c’era un foglio di carta vecchio stile, affisso al linoleum da quattro soldi con uno spillone di mezzo metro.
“Atto di pignoramento” recitava. Alla fine avevano scoperto dove abitavo. Maledizione!
Mi ero diretto verso il termosifone del bagno, l’unica cosa che non erano riusciti a sradicare. Girai la levetta sul retro e una piastrella sul muro si spostò di lato. Non avevano scoperto il nascondiglio segreto. Bene.
Avevo preso la pistola e duecento euro, tutti i soldi che mi erano rimasti e mi ero diretto alla più vicina stazione della funivia transcittadina.

Ripensai a questi fatti decine di volte mentre aspettavo la vettura, guardando la pioggia scorrere sui vetri incrostati della stazione. Dovevo seguire l’unica traccia che mi era rimasta se volevo continuare a vivere: quella sospensione corrispondeva più ai classici “due mesi di preavviso” che a una “sospensione per accertamenti” e se fossi stato licenziato la polizia non mi avrebbe più protetto e i molti nemici che mi ero fatto in trent’anni di polizia avrebbero facilmente scoperto la mia residenza. “Sempre che la trovi, una nuova residenza” pensai.
La funivia per la costa est arrivò e le porte si aprirono con il cigolio di un macchinario cinquantenne.
Diedi la mia carta di credito al controllore, sperando che non controllasse subito il mio conto in banca, scoprendo che ero in rosso da diversi mesi. Non lo fece. Meno male.
La funivia partì con sonori scricchiolii e io mi sedetti nella penombra.
Arrivato al capolinea scesi e mi diressi verso il Canal Grande, nella città vecchia.
Arrivai al porto delle gondole e mi diressi verso un pub poco distante.
Era un locale prettamente turistico e la sua insegna recitava “Dal Mercante di Venezia”. Andai al bancone e mi ordinai un drink. Quando il barista me lo portò gli dissi:«Un mio amico mi ha detto che qui vendete anche roba più forte, mi ha detto di chiedere di Jok».
«Se conoscessi Jok quanto saresti disposto a pagare?» disse lui.
«Ventimila al kilo» gli risposi.
«Mi spiace, non lo conosco» ribadì lui.
«Potrei salire a cinquantamila» gli dissi io, ben sapendo che ne dovevo il doppio solo alla banca, per non parlare delle tasse e dell’ufficio prestiti.
«Jok é quello laggiù, con l’impermeabile nero.» mi rivelò l’oste.
Mi diressi verso il losco individuo a grandi passi. Non era poi così losco, in realtà, molte delle sue cicatrici e dei suoi tatuaggi erano palesemente finte e lui era un tipo mingherlino e dall’aria piuttosto nervosa.
Mi sedetti di fronte a lui e gli dissi:«Salve, sono DiGriz, ho sentito che vendi roba forte e alcuni miei clienti sarebbero interessati ad acquistarla.»
«Questi argomenti é meglio discuterli sul retro, seguimi» e si alzò, dirigendosi verso una porta dietro il bancone scrostato.
Aprii la fondina e gli tenni dietro.
Il retro della bettola era pieno di vecchie riviste ammuffite e di nastri di dubbio gusto, ma non mi scomposi: avevo visto di peggio.
«Che genere di “roba” vendi esattamente» lo interrogai.
«Gli ultimi ritrovati della medicina e della tecnologia: quadricocaina, hiperacis, testate nucleari dell’esercito australiano, navette interplanetarie… Chiedi e ti sarà dato. Sempre che tu abbia i soldi, ovviamente» disse lui.
«I soldi non sono un problema,» un’affermazione tutt’altro che veritiera «ma voglio vedere la merce prima, la quadricocaina per l’esattezza» replicai.
«Ma certo! É tutta intorno a noi. Queste casse sono piene di pattume solo in superficie, sotto c’é la droga» mi rivelò.
Mentre si girava per aprire la cassa più vicina, illustrandomi i pregi della merce, passai all’azione.
«Fermo, polizia!» gli gridai, estraendo la pistola e aprendo per un attimo il portafoglio, come se ci fosse la tessera da poliziotto all’interno, e facendo troppo in fretta perché lui si rendesse conto che in realtà era la carta d’identità (Siano benedetti i burocrati e la loro mania di fare tutti i documenti così simili!).
Il pacchetto di quadricocaina gli cadde dalle mani e lui iniziò a tremare, terrorizzato: non era mai stato dalla parte sbagliata di una “Luger Plus” del ‘57. Duemilacinquantasette.
Dietro di me sentii lo scatto di un grilletto.
Il suono mi fece capire di che arma si trattava: una vecchia doppietta, tenuta molto male, imbracciata, naturalmente, dall’oste, come avevo calcolato.
Le percezioni di un veterano come me rallentano quando l’addestramento e l’esperienza prendono il sopravvento, così mi sembrò che passassero numerosi secondi mentre mi gettavo di lato, giravo su me stesso, alzavo la pistola ed esplodevo un colpo, facendogli un buco proprio in mezzo agli occhi.
Rotolai su me stesso e mi misi in posizione di sparo, tornando a puntare su Jok, che svenne.
Ritornai nel locale e lo chiusi spaccando un paio di tavoli.
Trascinai Jok nella doccia e aprii l’acqua. Il criminale si svegliò con un urlo angosciato.
«Sei un grosso spacciatore e contrabbandiere» gli dissi «per i tuoi reati c’é l’ergastolo, ma mi servono dei nomi e se me li darai e cambierai aria subito non ti consegnerò ai miei capi. Cominciamo».
Un’ora dopo stavo uscendo dal locale in fiamme, soddisfatto per aver ottenuto tutte le informazioni che mi servivano.
Passai tutta la notte girando per la città, costringendo i criminali a rilasciarmi confessioni e smontando la macchina della droga e del contrabbando pezzo per pezzo.
Era l’alba quando giunsi inequivocabilmente alla conclusione che sospettavo già da tempo: a capo di tutto c’era un solo uomo, come sempre, e quell’uomo era una mia vecchia conoscenza: il maresciallo Rocket!
Nel rossore del mattino mi avviai verso un negozio di armi, pronto a spendere gli ultimi euro rimastimi.
Feci i miei acquisti e diedi la mia carta di identità al negoziante, che estrasse una pistola, dicendomi:«Mani in alto, criminale!».
Il maresciallo era venuto a conoscenza delle mie indagini dopotutto.
Cinque minuti dopo stavo uscendo dal negozio con parecchie armi in più e con un proiettile in meno.

La tempesta si era placata e una sottile pioggerellina bagnava le strade della città quando giunsi al quartier generale principale della polizia. Il palazzo, costruito nello stile tipico di inizio secolo, relativamente basso, era uno dei più vecchi della metropoli e, come molti degli edifici circostanti, appariva cadente e desolato.
Nel negozio d’armi mi ero procurato uno zaino a reazione in grado di spedirmi almeno a un centinaio di piani più in alto. Mi sarei dovuto aprire la strada con le armi solo per una decina di piani.
Controllai le pistole gemelle P-46, cambiai caricatore alla mia fidata Luger Plus, tolsi la sicura all’Uzi Pro 427, inserii una testata nucleare tattica nel lanciamissili portatile ultracompatto, mi misi la maschera dell’ossigeno, accesi lo zaino a reazione, ringraziai l’incompetenza dei burocrati che, dopo quarantasette anni -quarantasette-, non avevano ancora finito di compilare le pratiche per il trasferimento del Q.G. a un edificio più moderno e avviai i jet.
L’aria mi sferzò la faccia mentre lo zaino mi faceva raggiungere un'accelerazione verticale di oltre cento kilometri orari, per poi spegnersi e staccarsi, precipitando nel vuoto.
Per un attimo temetti di aver preso un paracadute difettoso, ma poi avvertii lo scatto delle cinghie che si sganciavano e mi ritrovai in mano i comandi del velivolo. Mi diressi verso la più vicina finestra, imbracciai l’Uzi e mandai in frantumi il vetro antiproiettile (o così sarebbe stato se qualche funzionario corrotto non si fosse tenuto per sé buona parte dei finanziamenti. Un rischio calcolato).
Una volta dentro presi le P-46 e iniziai a sparare a caso, per creare panico nell’ufficio, cercando di non ferire nessuno.
Corsi verso la più vicina tromba delle scale e passai i successivi venti minuti a salirle, svuotando i caricatori delle pistole e dell’Uzi.
Arrivai all’ultimo piano, l’ufficio-appartamento del maresciallo Rocket. Per entrare nel suo ufficio bisognava superare quattro guardie e i sistemi di sicurezza elettronica, probabilmente l’unica cosa mantenuta in perfetta efficienza in tutto il palazzo.
Le guardie mi spararono addosso appena uscii dalla tromba delle scale, ma non erano veri veterani della polizia.
Misi in pratica i principi del Kanataka-Mantra, la tecnica di previsione di possibilità in combattimento, per “nuotare” tra i proiettili e misi fuori combattimento i gorilla con quattro colpi ben assestati.
Naturalmente i sistemi di sicurezza elettronici erano stati attivati e una vecchia barzelletta popolare tra i poliziotti diceva che si potevano superare solo con delle armi nucleari.
Io conoscevo questa barzelletta e avevo già visto parte dei sistemi di sicurezza, così mi ero preparato. Presi il lanciamissili, tolsi la sicura, lo regolai su ”massima diffusione“, feci fuoco nel corridoio e mi gettai di nuovo nella tromba delle scale.
Un missile nucleare tattico é un’arma progettata per causare il massimo danno possibile in un’area limitata, ad esempio un carro armato, lasciando un livello minimo di radiazioni.
Quando il missile esplose si sentì un boato terrificante, una vibrazione percorse l’edificio e una luce più accecante di quella dello stesso sole si espanse nell’ultimo piano.
Sentii delle voci che si avvicinavano, sicuramente i miei inseguitori, che non potevano non aver capito la mia posizione, e risalii all’ultimo piano.
 Mi avvicinai alla porta blindata dell’ufficio, superando la zona incenerita, applicai una granata apri porta e trattenni con dei colpi di pistola i poliziotti che tentavano di salire.
La carica esplose, entrai nell’ufficio e mi barricai dentro con la pesante scrivania di mogano.
Il maresciallo doveva essere nell’area abitativa, così mi avviai, pistola in pugno.
Entrai nell’appartamento e rimasi sbalordito per ciò che vi trovai.
Tutte le finestre erano chiuse e una grossa fiamma dietro un vetro rosso era l’unica fonte d’illuminazione. Rocket era lì davanti, al centro di un elaborato disegno tracciato con del liquido rosso, denso, probabilmente sangue, e diceva:«Sorgi, Sormorock, Sorgi!», in preda ad un delirio che non gli permetteva di accorgersi della mia presenza.
«Sorgi, mio signore e padrone! Sorgi, Sormorock, e vieni a dominare questo mondo maledetto!» continuava a blaterare.
A quel punto la fiamma si alzò e una tetra figura si levò da essa.
Era in parte uomo e in parte macchina ed emanava una sensazione di immensa malvagità.
«La sostanza che chiami quadricocaina mi ha permesso di uscire dal mio limbo, ma serve ancora una cosa per permettermi di dominare questa terra: un altro sacrificio umano.
Io ti proteggo mio servo, lui non può ferirti, uccidi quell’umano!» disse la creatura, presumibilmente Sormorock.
Rocket si avventò verso di me, sollevando un pugnale sacrificale. Mi spostai di lato e bloccai la sua mano a mezz’aria, cercando di fargli cadere l’arma. Torsi il suo polso  e lui indietreggiò, cercando in tutti i modi di liberarlo, ma, proprio quando stavo per avere la meglio, Sormorock si sporse dal suo rogo e mi afferrò una gamba.
Il demone cercò di trascinarmi verso la sua bocca bavosa e io gli sparai due volte, due centri perfetti. Ma qualcosa blocco i proiettili a mezz’aria, facendoli cadere sul pavimento insanguinato con un sinistro tintinnio.
«Sì, divincolati e soffri, miserrima creatura!» disse lui «Stai per conoscere un dolore come non hai mai provato. Non puoi fermare l’avvento di Sormorock!» e si mise a ridere, subito seguito dal suo servo.
Ero ormai a poche spanne da lui e potevo già sentire il suo alito puzzolente, più caldo dello stesso rogo, spazzarmi la faccia quando staccai una granata dalla cintura e gliela lanciai in bocca.
Il mostro mi lasciò andare, ingoiò la granata ed emise un gigantesco rutto, subito seguito da una risata. Mi allontanai da Sormorock, uscendo dalla sua portata. «Portami quell’umano, servo» disse.
Rocket si avventò su di me e lanciò un urlo disumano, subito troncato dal calcio che si beccò in pieno petto.
Il maresciallo, per niente scosso dal mio colpo, si rialzò e si mise a correre verso di me col pugnale sollevato.
Allora feci una cosa che mi avevano sempre detto di non fare: sparare a una persona con un lanciamissili nucleare tattico.
D’istinto mi lanciai verso la più vicina finestra, ma ero sicuro di morire.
L’esplosione disintegrò l’appartamento del maresciallo, portandosi il demone con sé, e mi scaraventò nel vuoto, dove persi i sensi.

Mi svegliai con tutte le ossa doloranti all’interno della funivia metropolitana che avevo sfondato, centrando perfettamente il vetro. Fortuna sfacciata!

Dopo quello che ho fatto non ho nessuna speranza di tornare nella polizia, così ora sono qui, ad offrire i miei servigi di poliziotto alla Libera Repubblica del Pianeta Marte.




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